«I piccoli sogni abitano dietro casa. I grandi viaggi finiranno quando non si avrà più il coraggio di sognarli.» M.R.
Ho gli occhi che bruciano del riflesso del sole sulla neve fresca, mentre un fastidioso nevischio trasportato da una leggera brezza continua a sferzarmi il viso. Dietro di me un serpentone di gente arranca faticosamente lungo una morena sovrastata da alte pareti su cui occhieggiano imbocchi di grotte inesplorate. Qualche escursionista passando lungo il sentiero guarda stranito i nostri zaini enormi, carichi di matasse di corda, tende, piccozze, chiodi da ghiaccio, caschetti speleo e altre diavolerie. Sembriamo una spedizione che si sta avviando a conquistare qualche montagna in chissà quale luogo sperduto del mondo. E invece no… siamo sulle montagne di casa, le Dolomiti, un luogo che non riusciamo mai a realizzare definitivamente quanto sia unico e magico, quanto poco o niente abbia da invidiare ad altre montagne, magari più alte, più grandi, ma mai più eleganti. Esplorare quassù è un grande privilegio. Le Dolomiti sono la frontiera della speleologia del futuro. Lo penso affacciandomi sulle altissime pareti di San Cassiano, a 3000 metri di altezza, osservando un tramonto che colora una distesa di montagne sconfinate: Civetta, Marmolada, Sella, Sassolungo, Odle… Quante pareti, quanta roccia, e chissà quanto ancora si nasconde là dentro di quel Regno di Fanes, quel luogo magico, che deve esistere, e noi lo sappiamo.
Siamo quassù, in cima alle Conturines, per esplorare uno degli abissi più in quota delle Alpi. Un ingresso grandioso, a 2930 metri, il Cenote, detto anche “Buco nell’Acqua”. Già… perché se voi cercaste questa grotta su una cartina scoprireste che un tempo questo ingresso enorme era un bel laghetto alpino dalle acque blu scuro, che se ci guardavi dentro sembrava non avessero fondo. Nel 1994, pare in seguito a un crollo della parete, il lago si è improvvisamente svuotato. Tolto il tappo, come da una gigantesca vasca da bagno. E si è aperto l’accesso a una grotta, scavata attraverso un grande ghiacciaio interno, un luogo freddo, sferzato da un vento sinistro, troppo affascinante e spaventoso per rimanere lì inesplorato.
Oggi siamo qui insieme agli amici del CSProteo di Vicenza, in particolare Matteo e Lina, compagni di altre esplorazioni, con cui condividiamo il modo di pensare, di essere, di concepire quella speleologia che va oltre le frontiere. Con loro anche Angelo e Gianpaolo. Gian in particolare è l’unico tra noi che è entrato nel Cenote cinque anni fa. Insieme con il compianto Paolo Verico, erano stati trasportati lassù da un elicottero della finanza, per poi scendere nel ghiaccio per oltre 100 metri fino ad affacciarsi su una voragine profondissima che non avevano potuto scendere per mancanza di materiali. Il vento freddo che congelava le tute e le attrezzature bagnate, insieme con il brutto male che si era portato via Paolo pochi mesi dopo, avevano poi smorzato gli entusiasmi esplorativi. Nessuno da allora è mai tornato laggiù.
Questa volta siamo un bel gruppo motivato, legato da una forte amicizia, deciso a tornare a casa con un bel risultato, anche per ricordare Verico e dare luce a quel grande pozzo che lui aveva scoperto cinque anni fa. Molte sono le incognite. Prima di tutto il meteo. Di questa stagione a tremila metri non si scherza, una bufera di neve può farti perdere la strada del ritorno, il freddo può fare il resto… Seconda, il ghiacciaio interno: cosa sarà successo in questi anni? Il passaggio sarà ancora aperto? Terza: il caldo e il sole. Sì perché anche una giornata troppo bella e calda rischia di sciogliere la neve e far precipitare nella grotta una cascata di acqua che il vento è capace di congelarti addosso, per farti finire come un succulento stoccafisso della bofrost. E poi tutto il resto.
Montato il campo all’ingresso, grazie anche a quattro di noi che si sono prestati come portatori e che ora ridiscendono a valle, la prima squadra si prepara ad entrare. Sono le 5 del pomeriggio e le nebbie che ci hanno accompagnato fin d’ora cominciano a diradarsi mostrandoci l’imbocco nella sua imponenza. Luca, Gian e Jean Pierre, dopo aver litigato con il trapano, che come sempre si rifiuta di andare nei momenti importanti, cominciano la discesa del ghiacciaio interno. Le cose sono abbastanza cambiate rispetto al 2005, la via nel ghiaccio si è spostata e bisogna seguire l’aria per trovare la strada giusta. I tre arrivano così a un fondo cieco, sembra che non ci sia speranza. Ma, come al solito, Jean ha l’intuizione giusta e con una breve risalita a piccozza e ramponi raggiunge una finestra che da accesso a un incredibile condotta di ghiaccio che porta su altri pozzi tra le pareti di roccia e il ghiacciaio. È sera ed entra una seconda squadra. Matteo, Lina e Angelo che hanno il compito di avanzare fino all’imbocco della voragine interna e tentare di scenderla. Io, Crispino e Doomenico aspettiamo ancora fuori fino a mezzanotte che esca nel frattempo la prima squadra. Quando entriamo scendendo veloci lungo le corde troviamo Lina alla disperata ricerca di un po’ di stillidio per riempire delle bottiglie. Ci avverte che la situazione là sotto non è delle più amene, tutti stanno soffrendo la sete. La grotta è in condizioni ottimali, asciutta, fredda, congelata. Ma secca. Soffriremo tutti moltissimo, perché quella poca acqua di scioglimento che beviamo è senza sali, quasi amara, e fa male. Ma non ce ne rendiamo conto e la pagheremo poi cara risalendo con nausea e conati di vomito.Quando arriviamo in cima al pozzone, Jean sta risalendo, mentre Matteo e Angelo sono sotto un centinaio di metri. So capire ormai solo sentendo il tono della voce di Jean che cosa c’è la sotto. Il pozzo deve essere davvero enorme e c’è molta incertezza sul fatto che le corde che abbiamo possano bastare. Dobbiamo recuperare una 30, l’ultima e scendere dagli altri, ma siamo scettici di poter toccare il fondo. Scendiamo veloci lungo una grandiosa lingua di ghiaccio mentre l’ambiente si apre sempre più sotto di noi perdendosi in un nero spaventoso. Con un pendolo si raggiunge la parete di roccia e ci si rende conto che il ghiacciaio è sospeso come un gigantesco trampolino che si affaccia nel vuoto. Altri cinquanta metri più in basso troviamo gli altri due appollaiati su un minuscolo terrazzino. Ci dicono che in totale abbiamo ancora 50-60 metri di corda, guardando giù si intravede il fondo, un ambiente gigantesco, nero nerissimo. Angelo, risale, mente Matteo rimane con me e Cristiano che sta scendendo. Dall’ultimo frazionamento lo vedo scendere e diventare sempre più piccolo. Giunta le corde e continua nel vuoto per almeno sessanta metri. Da sopra la visione è impressionante. Vedo un omino minuscolo sperduto in un ambiente gigantesco. Poi di colpo una bestemmia rimbomba tra le pareti del pozzo. Tre metri… mancano solo tre metri di corda al pavimento! Sembra una presa in giro. Siamo tutti concordi che non usciremo da qui se non avremo raggiunto il fondo di questo baratro. Così Matteo si sacrifica risalendo il pozzo per recuperare la corda del traverso che si trova in testa alla voragine. I suoi ramponi stridono contro la parete, mentre pezzi di ghiaccio continuano a cadermi addosso… uno mi colpisce il braccio… la cosa mi mette ansia, ma alla fine va tutto bene e Matteo fa ritorno con la corda necessaria.
Questa volta non è una bestemmia ma un urlo di soddisfazione che rimbomba nel pozzo quando Cris tocca il fondo. E anch’io continuo a urlare mentre scendo. Non ho mai esplorato un ambiente così impressionante. Ci troviamo nel salone tutti e tre per un autoscatto di rito e poi, stanchissimi, ci mettiamo a girare nell’ambiente, senza altre velleità esplorative. Il pavimento della sala è un enorme rock glacier. L’ambiente supera i 100-120 metri di lunghezza raggiunge i 60 metri nel punto più largo, 40 in quello più stretto. Il baratro ha quindi un volume di circa 900.000 meri cubi. Non sappiamo quanto sia profondo il ghiaccio, ma con ogni probabilità si tratta del più grande ghiacciaio interno esplorato delle Alpi. Addirittura sul fondo del salone si può osservare una sorta di cordone morenico, che ci dice che tutto quell’ammasso si muove, si modifica.
Siamo tutti e tre molto emozionati. Io e Teo siamo però anche molto stanchi. Sono le 5 di mattina, siamo a circa –280 di profondità, e sappiamo che da fuori difficilmente scenderà qualcuno ad aiutarci a disamare. Per fortuna che l’adrenalina ha rinvigorito Cris che risalirà disarmando tutto senza fare una piega, mentre noi ci avviamo con i sacchi verso l’esterno. Sopra il pozzone troviamo Lina, unica che ha avuto pietà di noi ed è scesa ad aiutarci. Penso che si sarebbe meritata anche lei la discesa del pozzone e mi spiace non potergli dire «vai, scendi a vedere che c’è là sotto…»
Tante volte pensiamo che per trovare cose che ci emozionino, per esplorare davvero sia necessario andare lontano geograficamente. Risalendo penso che “andare lontano” non sia questione di chilometri, di angoli opposti del mondo. Si può essere distanti da tutto anche nelle montagne di casa. Si possono scoprire cose mai immaginate anche qui. Penso di non essere mai andato così lontano come quei momenti passati nell’enorme buio del Cenote, nel cuore delle nostre montagne.
Al rifugio scorrono fiumi di birra, mentre qualcuno si accascia russando sul tavolo tra le risate degli altri, solo un po’ più lucidi. Anche se nessuno lo dice, sappiamo che tutti i brindisi vanno a Paolo Verico, al suo Baratro, che a lui dedichiamo, come è giusto che sia… perché le persone rimangono legate per sempre ai luoghi che illuminano. Anche e soprattutto qui, nel cuore delle Dolomiti.
Francesco Sauro
Hanno partecipato (in ordine sparso)
Matteo Burato, Lina Padovan, Angelo Roncolato, Gianpaolo Visonà, Martina Schiavinotto, Greta Guidi, Winder Alexander Gonzales, Federico Buia, Domenico Carletto, Luca Gandolfo, Jean Pierre (Marco) Zocca, Cristiano Zoppello, Francesco Sauro.