mercoledì 3 novembre 2021

Il continente buio - nuovo libro di Francesco Sauro edito da Il Saggiatore


Un viaggio alla scoperta del cosmo sotterraneo composto da grotte e caverne, labirinti e dedali, cunicoli e camere, pozzi e grandi laghi; un reticolo misterioso e seducente che resta l’ultima frontiera inesplorata del nostro pianeta.
 
Una piccola crepa che spacca la roccia. Oltre la fenditura, un passaggio che conduce al cuore della montagna. La flebile luce della fiamma sul casco dello speleologo danza là dove prima c'era il buio assoluto. Il percorso si spinge sempre più in profondità, lungo il solco scavato da un antico torrente. Un cunicolo porta a un lago nero. Lo speleologo poggia il casco, si spoglia, prende fiato e si tuffa, per scoprire che oltre c'è un altro passaggio, un pertugio che invita a continuare il viaggio. Non importa quante volte l'abbia affrontato, perlustrato, sfidato: il continente buio continua a sedurlo.
Francesco Sauro ha risposto al richiamo del continente buio fin da ragazzino, quando andava alla ricerca di qualunque fessura che potesse farlo entrare nel cuore della Terra. Oggi nel suo sguardo alla passione giovanile si mescola il desiderio di conoscenza dello scienziato. In Il continente buio le storie delle sue avventure si intrecciano con i resoconti scientifici delle spedizioni: a ogni discesa il rilevamento della topografia, delle tracce sonore, della composizione dell’atmosfera, dell’età di morfologie primordiali traccia per chi resta in superficie una mappa in continua evoluzione di un cosmo nascosto che ha i suoi punti di accesso nelle grotte delle Dolomiti quanto nell'Himalaya, tra i Monti Lessini come in Venezuela. Ovunque la terra offra un’apertura, c’è qualcosa di nuovo da scoprire.

Ultima frontiera dell’esplorazione terrestre, il sottosuolo è un universo misterioso, un reticolo di gallerie in cui ci si può imbattere in cascate altissime, creature luminescenti, echi misteriosi, vapori infernali, sculture votive primitive, scheletri abbandonati e il buio: dappertutto, sempre, l’ignoto, il buio. Un universo in cui l’essere umano deve fare continuamente i conti con se stesso, con i limiti del proprio corpo e della propria intelligenza. In cui insieme ai confini della Terra si esplorano quelli dell’umanità.








domenica 10 marzo 2019

Dentro la calotta Groenlandese

Siamo abituati a immaginare ciò che si estende sotto la superficie del nostro pianeta come un mondo totalmente oscuro, dove nessun fotone riesce a penetrare. Il buio è lo stato naturale del regno sotterraneo, tuttavia esiste un’unica meravigliosa eccezione. Per sperimentarla è necessario avventurarsi in uno dei luoghi più pericolosi ed effimeri del nostro pianeta: il cuore dei ghiacciai.
Quando d’estate il calore fonde la superficie del ghiaccio, l’acqua si raccoglie in rivoli, torrenti e talvolta veri e propri fiumi che, raggiungendo una temperatura di poco superiore allo zero, possono infiltrarsi nei crepacci e, fondendo altro ghiaccio, creare delle grandi voragini chiamate dagli scienziati “mulini“ glaciali. Da qui queste acque tumultuose continuano il loro viaggio fluttuante, fino a giungere al fronte, dopo un percorso lungo talvolta decine di chilometri. Il processo dura poche settimane e non appena ritorna il freddo dell’inverno i fiumi si arrestano, nuovamente congelati, e le grandi grotte glaciali scavate dai corsi d’acqua, per un breve e imprevedibile tempo, possono essere esplorate.
La calotta groenlandese è senza pari al mondo per questo fenomeno. Qui ogni estate 270 tonnellate di ghiaccio fondono e intraprendono un viaggio sotterraneo all’interno del ghiaccio il cui percorso è sconosciuto.
Sorvolando l’immensa superficie ghiacciata in cerca di fiumi, nel luglio del 2017, insieme con il collega fotografo e glaciologo Alessio Romeo, ci trovavamo a fantasticare degli immensi mondi che si sviluppano sotto la superficie della Groenlandia. In un paio d’ore di volo avevamo individuato corsi d’acqua dalle portate di centinaia di metri cubi al secondo che sparivano con rombanti cascate in grandi mulini. Ora, a fine settembre, siamo tornati per verificare se quelle cascate sono ritornate inermi e cristallizzate dalle fredde notti autunnali, permettendoci di penetrare all’interno della calotta. Siamo un gruppo di speleologi, glaciologi e documentaristi, uniti sotto l’egida del progetto “Moncler Inside the Glaciers”, decisi a intraprendere questo viaggio attraverso i ghiacci. Siamo stati lasciati qui ad oltre mille metri di quota nel mezzo della calotta glaciale da un elicottero Sikorski che ci verrà a riprendere solo tra otto giorni, il tempo necessario per riuscire a scendere almeno due grandi mulini.
Abbiamo esperienza di grotte nei ghiacciai delle Alpi e della Patagonia, ma qui è diverso, tutto è molto più grande. Il primo abisso lo affrontiamo in un freddo pomeriggio, affacciandoci su un baratro di oltre 120 metri di profondità. Scendendo sempre più in profondità, facendo scorrere le corde e avvitando le viti nel ghiaccio trasparente, la sensazione è come se mi stessi immergendo in un mare di acqua solida. Ad oltre cento metri sotto la superficie mi fermo sospeso al di sopra di un grande lago sotterraneo, probabilmente impossibile da superare. Qui le pareti della grotta non sono oscure, ma diffondono una luce diffusa, di colore blu intenso. Il ghiaccio, infatti, permette solo allo spettro blu della luce solare di attraversarlo, creando un effetto spettacolare. Qui sotto tutto è blu, e se spengo la luce del mio casco, le pareti si fondono un gioco caleidoscopico di riflessioni. Mi immagino le immense gallerie di cristallo illuminato di azzurro che si sviluppano sotto di me, impossibili da raggiungere. Mentre faccio questi pensieri, dalla vite da ghiaccio a cui sono ancorato, scatta improvvisamente un rumore sordo e un frattura si propaga come un fulmine nella parete. Il suo rimbombo attraversa la voragine lasciando spazio di nuovo al silenzio rotto solo dal battito del mio cuore, accelerato per lo spavento.
Questi non sono luoghi tranquilli, la loro bellezza è bilanciata da una sorta di inquietudine: fino a pochi giorni fa un’enorme cascata si gettava nel baratro, e tra poche settimane le pareti si avvicineranno plasmate dal loro stesso peso e la grotta si richiuderà su sé stessa. Ma quel blu meraviglioso rimarrà a illuminare le profondità del ghiaccio.

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All’uscita, nella notte polare, troviamo ad accoglierci una delle più intense aurore boreali degli ultimi anni, complice una tempesta solare che si sta abbattendo sulla terra proprio in questi giorni. Le sue frange di verde intenso danzano leggere sopra le nostre teste. Il cielo e la terra di ghiaccio, tutto è in continuo movimento.

Nel mulino Ice Alive, sotto di me oltre 100 metri di voragine inesplorata (foto di Alessio Romeo - Courtesy of Moncler)


Osservando particolari concrezioni di ghiaccio con l'amico Joseph Cook, anche lui Rolex Award nel 2016 (foto di Alessio Romeo - Courtesy of Moncler)


Il campo del 2017, in posizione strategica tra l'abisso Ice Alive e il Northern Lights (foto di Alessio Romeo - Courtesy of Moncler)


L'aurora illumina il campo del 2017 (foto di Alessio Romeo - Courtesy of Moncler)


lunedì 12 marzo 2018

L’archivio dei terremoti è nascosto nel sottosuolo


Solo a partire dal 19° secolo i sismografi ci permettono di localizzare e registrare l’intensità dei terremoti creando un archivio storico grazie al quale è stato valutato il rischio sismico delle diverse regioni italiane. Tuttavia, i dati in nostro possesso coprono un periodo estremamente breve nella concezione geologica del tempo, e per andare ancora più indietro nel passato è necessario accedere agli archivi naturali del sottosuolo.

Guardando le immagini del terremoto del Centro Italia risulta evidente più che mai come l’energia che si scatena sulla superficie con la propagazione delle onde sismiche, non solo devasta le opere dell’uomo, ma causa anche la formazione di nuove fratture e la caduta di blocchi dai versanti delle montagne. Le faglie aperte sui versanti del Monte Vettore nelle Marche ne sono un esempio, così come le frane avvenute sul Gran Sasso a partire dalla scossa del 24 agosto. Tuttavia, quello che non possiamo vedere con chiarezza è ciò che è avvenuto nel sottosuolo, nel luogo dove si è sprigionata tutta quell’impressionante energia. Un geologo attento può leggere nel paesaggio le evidenze dell’attività tettonica del passato, ma molto spesso queste sono mascherate dall’erosione, ed è veramente difficile assegnare una cronologia agli eventi e riuscire a capire quando e con quale frequenza una zona è stata colpita da sismi nelle ultime migliaia di anni.
Lo strumento più potente per leggere la sismicità del passato è rappresentato dalle stalagmiti, formazioni di carbonato di calcio, frequenti in moltissime grotte del mondo, e che hanno registrato i terremoti sotto forma di microfratture, cambi del proprio asse di sviluppo o crolli. Le stalagmiti sono un po’ come gli alberi, dove gli anelli di crescita si possono datare con sistemi radiometrici e quindi è possibile assegnare una data certa a ogni evento con notevole precisione, spingendosi fino ad oltre un milione di anni dal presente
Durante l’esplorazione del sistema di grotte dei Piani Eterni nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi mi ero imbattuto in un enigma affascinante: in una delle gallerie più profonde avevamo scoperto una grande stalagmite crollata come un tronco d’albero sul pavimento della galleria sotterranea. Già alla prima vista era evidente che questa colonna, se rimessa in piedi nella sua posizione originale, non poteva essere contenuta tra il pavimento e il soffitto, troppo basso in quel punto. Grazie a una datazione assoluta effettuata sulla colonna con il metodo dell’Uranio/Torio è stato possibile dedurre che centonovantamila anni fa un terremoto, chissà di quale intensità, aveva spostato gli strati di roccia abbassando il soffitto di quella caverna e causando il crollo della grande colonna. Difficile immaginare cosa avrebbe significato trovarsi laggiù in quel momento.
Ma questo non è l’unico caso. Tracce di terremoti nelle stalagmiti sono state individuate in moltissime grotte italiane, tra cui anche nelle famose Grotte di Frasassi. Sui Monti Lessini alle spalle di Verona un’altra grotta ha fornito una stalagmite le cui variazioni nell’asse di crescita sono state associate al terremoto di Verona del 1117, uno dei più devastanti sismi mai avvenuti nella penisola italiana (considerato di grado 8 della Scala Mercalli e che ha causato la distruzione di Verona, Padova, Trento e Cremona). Ma non solo, la stessa stalagmite ha rivelato la presenza di altri sismi di simile intensità avvenuti con una cadenza circa millenale fin dalla preistoria.
Ricercare i segni dei terremoti del passato nel sottosuolo potrebbe apparire una ricerca fine a sé stessa, un fatto di puro interesse storico. Ma quando ci si trova con la terra che trema sotto i nostri piedi ci si rende conto improvvisamente che, entrando nel concetto di tempo geologico, tutto è collegato. Il terremoto è solo uno sui milioni di eventi sismici che sono responsabili della formazione della struttura naturale del nostro paese, del sollevamento prima delle Alpi e poi degli Appennini. Ci troviamo di fronte a un processo che nel nostro concetto umano del tempo facciamo davvero fatica a comprendere, un evento eccezionale per noi uomini, che invece ragionando coi tempi di evoluzione del nostro pianeta rientrerebbe nella normalità.  Trovare degli indizi che ci dicano se una zona del nostro paese era attiva in un passato non così geologicamente lontano, ci permette di prepararci per il futuro e a considerare la nostra terra come un essere vivo la cui enorme energia va assecondata e non ignorata.



La grande faglia di Cimia emerge in superficie e taglia il sistema carsico dei Piani Eterni. Molte gallerie di questa grotta sono state intersecate da attività tettonica nell'ultimo milione di anni. 


Nella galleria del Teatro nei Piani Eterni una grande stalagmite è crollata 190 mila anni fa a causa di un terremoto che ha spostato il tetto della caverna. 



lunedì 5 febbraio 2018

Dentro la realtà immaginaria di Jules Verne

Messico, stato di Chihuahua. Presso il villaggio di Naica, tra montagne desolate e deserti a perdita d’occhio, si apre la più grande miniera sotterranea dell’America Centrale. Al suo interno è stata accidentalmente scoperta una grotta incredibile che cela il segreto dei più grandi cristalli conosciuti sulla terra. La visione di questi prismi colossali va oltre l’immaginazione, e dimostra che l’esplorazione del mondo sotterraneo è appena cominciata.

Dopo oltre un secolo di attività la miniera di Naica ha deciso di chiudere i battenti. Gli scavi nelle nella rampa “San Francisco” avevano raggiunto oltre mille metri di profondità inseguendo uno dei più ricchi filoni di argento conosciuti al mondo, ma ormai neppure le più sofisticate idrovore riuscivano a pompare all’esterno i milioni di metri cubi d’acqua che altrimenti allagherebbero le gallerie sotterranee. Peñoles, la compagnia messicana che ha gestito questo gioiello dell’ingegneria mineraria, ha deciso nell’ottobre del 2015 di spegnere tutti i macchinari, lasciando che le acque riprendano possesso di quel labirinto oscuro. Per sempre.
Il centro minerario di Naica è destinato oramai a diventare uno dei tanti paesi fantasma dei deserti messicani. Eppure questo luogo ha rappresentato un vero punto di svolta nella conoscenza del mondo sotterraneo.
La prima grande scoperta era avvenuta già nel 1910 quando alcuni minatori avevano aperto un varco che portava a una caverna sotterranea tempestata di cristalli di gesso, solfato di calcio, che come lame taglienti raggiungevano fino a due metri di lunghezza.
Ma nessuno, neppure il geologo più visionario, immaginava quello che sarebbe stato scoperto nei primi anni duemila, mentre gli scavi continuavano al Livello 4 della miniera. Due minatori, i fratelli Delgado, dopo aver fatto saltare l’ennesima mina, avevano abbattuto un diaframma di roccia che dava accesso a una grande cattedrale naturale. Quando vi entrarono rimasero increduli alla vista di cristalli trasparenti giganteschi. Alcuni arrivavano ad oltre 12 metri di lunghezza. La notizia della scoperta fece il giro del mondo. Ma esplorare la “Cueva de los Cristales” era impossibile, data la temperatura di quasi 50° centigradi e un’umidità vicina al 100%. Era possibile solo affacciarsi a quella meraviglia, entrarvi per pochi minuti poteva rappresentare la morte.
Nel 2007, ancora studente di geologia all’Università di Padova, avevo avuto la fortuna di entrare a far parte dell’Associazione di Esplorazioni Geografiche La Venta. Proprio in quell’anno gli speleologi e i tecnici della famosa organizzazione italiana stavano sviluppando particolari tute refrigerate e respiratori per poter esplorare la Cueva de Los Cristales. Per non so quale privilegio del destino mi trovai così a varcare la soglia di quella caverna a poco più di vent’anni. Con tuta e respiratore eravamo riusciti a spingerci all’interno della cattedrale sotterranea per un centinaio di metri fino a dove una strettoia tra i cristalli ci aveva impedito di proseguire oltre. In quel punto tutte le pareti erano specchi splendenti e l’atmosfera era così meravigliosamente irreale da farmi sorgere il dubbio di stare vivendo un’allucinazione.
Tuttora, dopo quasi dieci anni, il ricordo della Cueva de los Cristales rimane sospeso tra il sogno e la realtà. Nonostante abbia potuto vedere con i miei occhi quegli immensi cristalli, la parte del mio cervello razionale è rimasta incredula a tanta perfezione. Eppure quel luogo è solo una finestra su chissà quanti altri mondi di cristallo che rimarranno per sempre a noi ignoti, nascosti dal mantello della loro oscurità. Ancora non esistono strumenti geofisici che possano dirci con certezza e precisione dove si trovino altre caverne come questa. L’unico strumento per sognarle è la nostra fantasia.
Provate quindi a immaginare per un momento che centinaia di metri sotto i vostri piedi si sviluppino caverne immense dove calde acque termali, come geologici liquidi amniotici, abbiano dato forma alle più bizzarre strutture minerali. Grandiose e scintillanti. Così Jules Verne aveva fantasticato il suo “Viaggio al Centro della Terra”.

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Proprio Verne nei suoi romanzi ci ha insegnato che l’ignoto ci permette di viaggiare con la mente e immaginare cose che pensiamo non possano esistere e invece sono semplicemente perse nell’oblio di una terra sconosciuta. La scoperta della Cueva de Los Cristales ci ha insegnato che talvolta la realtà supera la fantasia.

Nel 2007, pronti per entrare nella Cueva de Los Cristales. 

Nel gigantesco geode di Naica (foto Paolo Petrignani/La Venta)


mercoledì 6 aprile 2016

Tepui, il sogno continua

Siamo tornati… ma i nostri sogni sono di nuovo lassù, tra le nuvole delle montagne azzurre, i tepui, gli sconfinati altopiani della Guyana.
Da poco più di una settimana si è conclusa anche questa nuova tappa del Progetto Tepui, probabilmente la più complessa e costosa missione realizzata da La Venta in queste terre estreme. Due spedizioni, la prima al mitico tepui Sarisariñama, dove esattamente quarant’anni fa era cominciata l’epopea delle esplorazioni nelle quarziti, e la seconda all’Auyan, dove la meraviglia di Imawarì Yeuta continua ad ammagliarci chiedendoci di tornare.
È davvero difficile fare un riassunto di questi quaranta giorni, troppe cose sono successe, emozioni e difficoltà si sono incrociate in un turbinio che ci ha portato a raggiungere tutti gli obbiettivi e a tornare alla realtà felici di come sono andate le cose, grazie alla determinazione dei partecipanti e a una buona dose di fortuna. E abbiamo portato a casa troppe storie per essere freddamente raccontate nello schermo di questo blog. Mi limito quindi a descrivere i risultati speleologici e a lasciare alle significative immagini che seguono parlare da sole della meraviglia di questi luoghi.

Sarisariñama
Si è trattato di una spedizione molto impegnativa e complessa, a causa delle condizioni ambientali di questo tepui, quasi completamente coperto da foresta. Il campo base è stato allestito al villaggio di Kanarakuni, comunità indigena di etnia Ye’kuanas, luogo mitico, teatro delle epopee esplorative del geologo italiano Alfonso Vinci negli anni ’50. . Come sempre nella nostra filosofia di spedizione, abbiamo ritenuto fondamentale coinvolgere da subito gli indigeni, con il capitano Romulo e altri membri della comunità che hanno partecipato direttamente insieme a noi alla ricerca degli ingressi sull’altopiano. Abbiamo avuto quindi la fortuna di condividere con loro moltissimi momenti piacevoli da cui è scaturita una grande amicizia tra La Venta, Theraphosa e la comunità.
Le attività di ricerca si sono concentrate su tre fronti: esplorazione di una serie di nuove sime individuate nelle immagini satellitari nel settore di sud-est del massiccio, documentazione e campionamento nelle grotte più importanti esplorate dalla spedizione venezuelano-polacca del 1976 (Sima Menor e Sima della Lluvia), e la documentazione per GEO con il fotografo Robbie Shone e il giornalista Lars Abromeit. Sono stati impostati due campi principali, uno nella zona delle sime conosciute a nord, e uno più a sud con maggiori incognite. Nel corso di 12 giorni sulla montagna siamo riusciti a esplorare 4 nuove sime, delle quali due chiudono quasi subito su crolli, mentre altre due hanno dato risultati interessanti con la Sima del Pajaro del Diablo (in lingua indigena Yadanaima Ewutu) che si spinge fino a -240, quasi un km di sviluppo, con un enorme salone fino a una zona dove l’acqua di falda risale per molti metri, e la Sima Profunda (in lingua indigena Tuna Enitojudu che significa “dove andò l’acqua del cielo”) che è stata discesa fino a circa -200 con grandi pozzoni e saloni e l’esplorazione interrotta per mancanza di corde. Ma non solo esplorazioni, sono state realizzate anche interessantissime osservazioni mineralogiche e numerose analisi delle acque, fornendo tanti nuovi spunti da sviluppare sulla genesi di questi giganteschi crolli. Abbiamo anche realizzato la prima documentazione seria delle gallerie della Sima Menor e rivisitato dal punto di vista scientifico e fotografico gli 1,5 km di gallerie della Sima dela Lluvia. Unico rimpianto è stato non essere riusciti a trovare un accesso al grande fiume sotterraneo che scompare inghiottito nella zona sud. Le sime allineate lungo la direttrice tra l’inghiottitoio e la risorgenza si sono rivelate in generale molto ostrutite da crolli e il livello del fiume si trova a profondità notevoli, probabilmente oltre i -250 metri dalla superfice.  Le scoperte sono comunque state notevoli e con una sola spedizione abbiamo ben raddoppiato le conoscenze sulle grotte della montagna dei precedenti quarant'anni.
Per raggiungere questi risultati abbiamo dovuto affrontare molte difficoltà logistiche e di coordinamento, con manovre al limite per l’elicottero che ha sempre lavorato in overing e senza porte per movimentare persone e materiali. Operazioni complesse con calate laterali, gestite egregiamente dal pilota José Galindes, dal nostro Freddy Vergara e da José Garcia (responsabile della protezione civile dello stato Bolivar), viaggiando sempre senza porte, e con baricentrici di oltre 60 metri per trasportare il materiale. Idem, la difficoltà di attraversamento della foresta per raggiungere gli ingressi è stata notevole, con ponti sospesi di tronchi, foresta fitta, mancanza di acqua e temperature molto elevate.
Alla fine della spedizione sono state inoltre raccolte testimonianze e leggende da un anziano Ye’kuanas che ha fornito una visione chiara della geografia del tepui, fornendo anche onomi alle sime inesplorate, come se gli indigeni le conoscessero da tempi remoti. Anche il ricordo di Alfonso Vinci è ancora presente, dopo mezzo secolo dal suo primo arrivo nella zona.
È stato difficile lasciare questo luogo così magico e ancora pieno di misteri, con la certezza che le grotte esplorate sono solo un minuscolo tassello di quello che potrebbe racchiudere questa mitica montagna.

Auyan 
Alla fine del Sarisariñama il 9 marzo alcuni di noi sono tornati a Sant’Elena per tornare in italia o risistemare la logistica mentre altri sono volati direttamente al villaggio Kavak per tornare sull’Auyan Tepui.
Siamo tornati a Imawarì Yeuta non solo perché ancora molto c’è da scoprire in questa zona del massiccio, ma soprattutto per continuare il lavoro di documentazione e studio di una delle grotte più belle al mondo. C’eravamo stati l’anno scorso a giugno per la realizzazione del documentario di BBC2 che è andato on air proprio durante i giorni di quest’ultima spedizione.
Gli obbiettivi di questa nuova spedizione all’Auyan erano i seguenti: documentazione delle zone più importanti della grotta di Imawarì Yeuta con laser scanner, attività di ricerca (anche con un altro premio Rolex, Hosam Zowawi), completamento della documentazione fotografica, e ricerca di nuove grotte nella zona sud del Gran Derrumbe.
Ciliegina sulla torta negli ultimi due giorni abbiamo scoperto anche una nuova grotta, rilevata per un chilometro al limite sud-est del Gran Derrumbe. Un altro bel tassello del sistema, esplorato sommariamente e con ambienti e speleotemi notevolissimi.
Questa scoperta ci ha confermato che l’Auyan cela ancora moltissimi segreti, mondi alieni ognuno con sue caratteristiche proprio che non finiscono mai di stupirci. L’emozione di affacciarsi su un nuovo baratro inesplorato, di sentire il vento che fa muovere le palme di fronte a un enorme portale. E poi la voglia di osservare, studiare, comprendere.

Ma non è finita qui. Credo che queste due spedizioni ci abbiano insegnato molto su come poter andare più lontano. Il Sarisarinama è stato il primo passo per affrontare la logistica complessa dei tepui amazzonici, per capirne le caratteristiche geologiche e ambientali.
Ora siamo a casa, ma ricordando l’esperienza vissuta stiamo già sognando al futuro. E i tepui rimangono isole del tempo, frammenti del paradiso perduto della Terra che ci attraggono col loro canto di sirena. Per quanto sapremo resistergli?


Queste spedizioni non sarebbero state possibili senza l’appoggio dei nostri compagni di avventura di Theraphosa e in particolare di Freddy Vergara. Siamo tutti sani e salvi grazie alla sicurezza e professionalità del mitico Raul Arias, dei suoi piloti, di Karina Ratzevicius e del capitano dell’elicottero José Galindes che ha accompagnato per oltre un mese oltre le soglie del tempo.
Il progetto è appoggiato dalla Gobernación dello Stato Bolivar, un ringraziamento speciale va al Dott. José Garcia, che ci ha prestato un preziosissimo appoggio medico e tecnico per entrambe le spedizioni.
Un gigantesco grazie va alle comunità indigene di Kanarakuni e Kavak, perché ciò che abbiamo condiviso rimane radicato nella vostra terra, nella foresta, nelle acque, nella roccia, e sopravvivrà a noi stessi.
Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il sostegno economico, ma soprattutto umano, del Rolex Award e del suo meraviglioso team.
Ma un grazie particolare va anche a Tiziano Conte che ci ha sempre sostenuto e con cui abbiamo condiviso questa avventura.
Hanno sponsorizzato e patrocinato: Dolomite, Geotec, Intermatica, Ferrino, Amphibious, De Walt, Allemano Metrology, Chelab, Scurion, GTLine, New Foods, MountainHouse, Bee1, Raumer, Tentsile, Fedra srl di Tiziano Conte, Konus, Erboristeria Sauro

Hanno partecipato:
Sarisariñama: Lars Abromeit, Daniela Barbieri, Tullio Bernabei, Leonardo Colavita, Carla Corongiu, Vittorio Crobu, Antonio De Vivo, José Garcia, David Izquierdo, Marco Mecchia, Alessio Romeo, Francesco Sauro, Robbie Shone, Lenin Vargas, Freddy Vergara, Jesus Vergara.
Auyan: Daniela Barbieri, Tullio Bernabei, Tiziano Conte, Carla Corongiu, Vittorio Crobu, Umberto Del Vecchio, Ada De Matteo, José Garcia, David Izquierdo, Benjamin Laniadony, Patrizio Rubcich, Tommaso Santagata, Francesco Maria Sauro, Francesco Sauro, Robbie Shone, Lenin Vargas, Freddy Vergara, Jesus Vergara, Hosam Mamoon Zowawi.

L'enorme Sala del Demonio Rojo, in una delle nuove sime esplorate sul Sarisarinama Tepui (foto V. Crobu). 

Scendendo al campo della Sima Redonda (foto V. Crobu).

Gallerie nella nuova grotta dell'Auyan Tepui, denominata Cueva de la Golondrina (foto V. Crobu). 

Lo spettacolare soffitto della Cueva de la Golondrina (foto V. Crobu).